Ogni tanto mi è capitato di ripensare al post di Eugenio Ghyotan sullo “stato di flusso”.
Si tratta di un argomento che ha interessato anche me in passato; leggendone, mi sono reso conto che in questa definizione vengono messe insieme cose decisamente diverse, se non opposte, tipo lo stato di assorbimento in qualcosa, come nella lettura di un libro, e lo stato di perfetta chiarezza che sperimentiamo nella pratica delle arti ad esempio il Taiji o l’Arrampicata.
La più semplice differenza è che nel primo caso (libro), perdiamo noi stessi in quello che stiamo facendo, un’ora passa in un secondo.
Nel secondo caso, in un certo senso, pure, in quanto scompare la distinzione tra noi stessi ed il mondo, non potremmo dire dove inizia l’uno e finisce l’altro.
Un attimo, in questo caso, può essere eterno, ma la cosa che più è importante è che, stavolta, troviamo noi stessi in quello che sperimentiamo, o, meglio troviamo quello che è il nostro vero volto prima che nascessero i nostri genitori o qualsiasi altro genitore.
Detto ciò, perché lo sto a dì?
Per ricordarci che il rischio è sempre lì, un capello e sei fuori.
Nell’esperienza di Taino, la parte essenziale è la prima: “E pensai che era bello sentirsi così, vivi e padroni della propria vita affidata solo ad un appiglio, niente chiodi e altri legami …”.
Nel rileggerla, estrapolata dal resto del testo, ognuno può vedere chiaramente che si tratta del perfetto Junkei.
In quel momento, caduti gli attaccamenti nel vuoto delle ripide pareti del Gran Sasso, ciò che è rimasta è la danza, la danza dei piedi e delle mani sulla roccia, la danza della polvere nei raggi di sole in una stanza, che manifesta il vuoto nell’azione, a patto di lasciarla essere attraverso di noi.
Eppure, come ci insegna il Principio di indeterminazione di Heisenberg, nel momento in cui pensiamo che lo stato di grazia sia diverso da un qualunque altro stato, l’interferenza ci fa perdere in una tempesta di quella stessa polvere, che in parte finiamo per amare e in parte per odiare, come ben sappiamo.
Quella stessa polvere che tuttavia, sola, ci può mostrare la luce in cui danza, nel momento esatto in cui la lasciamo andare.
Caro Valentino, grazie per il tuo commento, che mi ha portato a rileggere quanto avevo scritto io inizialmente. Quel post io l’ho scritto con uno spirito “di servizio”, l’intenzione era quella di presentare “un percorso, necessariamente incompleto, a partire da brani dei Notiziari del Maestro Taino sul concetto di “stato di grazia” nella tradizione orientale e occidentale.” Non quindi un teisho o un discorso di dharma, il blog non è lo strumento adatto, secondo me. Comunque, non ho mai inteso il leggere un libro come esempio di esperienza dello stato di grazia. Forse l’hai ravvisato nelle poche righe in cui ho raccontato il mio percorso con la fisica da adolescente, ma quell’esperienza non consisteva soltanto nella lettura di un libro, ma si è trattata di una “esperienza” , costituita da tanti aspetti su cui qui non mi dilungo. Rileggere il post mi ha fatto tornare in mente due episodi ulteriori sul Maestro Taino, che eventualmente aggiungerò al post iniziale: verso la fine degli anni ’90 il maestro mi prestò un libro, di tipo divulgativo, che raccoglieva le esperienze e le interviste a vari sportivi occidentali che avevano sperimentato stati “di grazia” senza volerlo; tra questi ricordo un episodio che riguardava Pelé. Erano esperienze capitate senza volerlo e senza la possibilità di riprodurle intenzionalmente. La bellezza degli insegnamenti come lo Zen è che può bastare un kinhin di pochi minuti per farne esperienza. Sarebbe interessante ritrovare quel libro per vedere se facesse riferimento agli studi di Csikszentmihalyi, che iniziarono prima degli anni ’90 e se quindi Taino ne fosse a conoscenza. Un ulteriore episodio si riferisce ad una sesshin estiva a Scaramuccia, prima del 2010 credo, in cui il Maestro commentò che durante il periodo dedicato al lavoro , il gruppo di praticanti aveva lavorato in grande armonia, concentrati e totalmente presi dal lavoro da fare. Eravamo diventati uno come gruppo. Si potrebbe dire, usando il termine coniato da Csikszentmihalyi, di un momento di flusso dell’intero gruppo. A questo mi riferivo verso la fine del post, quando parlavo della mia sperimentazione in cui creare le condizioni per cui gli studenti, coinvolti nel processo di fare fisica, potessero sperimentare tale stato. Certo, non sempre riesce, ma qualche volta sì.
Infine, un commento secondario alla tua osservazione finale, è davvero utile coinvolgere “il Principio di indeterminazione di Heisenberg”? Mi sembra che quello che vuoi dire sia già ben illustrato nella tradizione buddista. Ma mi fermo qui, per evitare di andare fuori tema rispetto al post.
Grazie Eugenio, in realtà il riferimento al libro era per quello che si legge in rete sullo stato di flusso, a mio parere poco corrispondente anche a quello che intendeva Csikszentmihalyi, per cui era un’osservazione (evidentemente poco chiara) su come oramai nel nome ci stiano infilando dentro un po’ di tutto.
Fuor di metafora, entrando invece nel merito, il rischio a cui facevo riferimento è in qualche modo lo stesso della mindfulness – lo “stato di grazia” può attrarre come condizione a sé stante, perché indubbiamente vantaggioso, dal punto di vista del relativo.
Quando tale condizione viene esplorata all’interno degli studi zen, il problema non sorge, ma essendo il blog in libera lettura, dobbiamo anche considerare la possibilità che ci incappi qualcuno che non sia assicurato in corda doppia, da cui il post.
Infine, è davvero utile coinvolgere “il Principio di indeterminazione di Heisenberg”?
Direi di no, ma peraltro come tutte le altre parole precedenti. E’ stato divertente farlo.
Solo una considerazione aggiuntiva sulla beatitudine o l’estasi cioé, per spegarci, quello “stare bene enorme” che possiamo rinvenire grazie alla meditazione ma che può non-essere-prodotta dalla stessa e che, anzi, può essere non-prodotta. Mi sono accorto che alcune opinioni dharmiche tipicamente giapponesi (non rinvenibili fra i praticanti tibetano o cinesi) rispondono alla mentalità severa e talvolta autopunitiva di questo popolo, e in particolare ci riferiamo proprio allo “stare bene meditativo”; ho fatto i miei esperimenti e ho capito che c’è un equivoco di base dovuto al fatto che i giapponesi non tendono alle sfumature: per loro “essere contenti quando si medita e goderne” è certamente la stessa cosa di “rimanere attaccati per quattro kalpa al piacere della meditazione senza andare oltre nella riscoperta della mente innata ben maturata ed espressa”.