4 novembre 1984
Ritorno da Scaramuccia, dalla sesshin di novembre, la prima della mia vita. Sono in stato ‘confusionale’ ma non spiacevole. Mi sento in bilico, come sospeso in un luogo di confine tra una larga tradizione di cultura e di pensieri che mi stanno alle spalle, e un nuovo orizzonte che non riesco ancora a determinare con coordinate precise. Tre giorni con ritmi, spazi, cibi, parole e silenzi assolutamente diversi dal solito spaccano la continuità di abitudini fisiche e mentali. Eppure, nello stesso tempo, si è qui in un luogo ‘normale’, conosciuto, in una cascina di una collina del centro Italia già battuta da tribù umbre, da legioni romane, e via via, da mille altri piedi. Ora ci stanno piccoli ‘giapponesi’. Che ci stanno a fare? Non sono forse una tradizione troppo lontana per non pensare al rigetto? Ma non erano forse lontani anche i piedi e le parole dei Greci, dei barbari, e anche dei Romani? Si siede a gambe incrociate in una terra in cui tutti stanno attorno a tavole imbandite con arrosti di cinghiale; si suonano piccoli orci di bronzo e di ottone, in un’aria da secoli percorsa solo dal suono delle campane; si recitano parole il cui suono è più importante del significato, in un posto dove da tempi immemori si recitano preghiere cristiane. Che cosa c’entra tutto ciò, qui, ora, in questo cuore dell’Italia? Ma cosa c’entrava, poco meno di 2000 anni fa, il simbolo del pesce o della croce, e il nome del figlio illegittimo di un falegname palestinese? Ogni tradizione ha avuto un luogo d’inizio assai diverso e lontano dagli spazi della sua espansione. Perché non dovrebbe essere così anche per il Buddhismo zen della scuola Rinzai?
Taino e i suoi due discepoli sono, per certi aspetti, ‘lunari’: forti ma gentili, decisi ma amabili, semplici ma profondi, autorevoli ma non autoritari. Esattamente il contrario della maggioranza di persone che si incontrano e si conoscono nella maggioranza dei nostri giorni. Eppure sono anch’essi qui, di questo mondo, con i problemi di tutti: con il problema dell’acqua che non c’è, con la terra da vangare, col tetto da riparare, col mangiare da fare, con l’uva da raccogliere, coi giornali da leggere, con le notizie da commentare. Lo straordinario è che non c’è nulla di straordinario, se non il fatto che ogni cosa ordinaria è fatta nel miglior modo possibile, col massimo della concentrazione ma anche col minimo di tensione. Rapidamente, ma senza fretta. Con precisione, ma senza meticolosità. L’esercizio della meditazione penso che non conduca che a questo. Che sembra poco, ma in realtà è moltissimo, forse tutto. Se in politica si agisse come Gencho pulisce le tazze si vivrebbe nel migliore dei mondi possibili.
Giangiorgio Pasqualotto
bellissimo questo ricordo! ma era già stato pubblicato da qualche parte ( la frase su Gencho mi sembra di ricordarla) oppure il prof. Pasqualotto l’ha inviato ora ?